Un rèfolo leggero s’infiltra tra i tessuti stagionali, così, in un ritmo circadiale, gira impietoso, avvoltola il crespo frinire del giorno, imbriglia la notte, sostiene le affocate estati e i grigi piovosi degli inverni di Sicilia. Ecco, allora, un turbinio zoologico, una flora infittita di sterpi, infiorescenze, licheni, pozze d’acqua ove galleggiano frantumi di muschi, attraversate da rettili acquatici, da sospiri di anellidi infittiti tra i fondali pietrosi, da cortecce d’alberi, da insistenti registri entomologici. Tutto questo vibra tra i versetti poematici scanditi in queste «stagioni del ramarro» di Angelo Giambartino, così come avvenne per «II periplo del tempo» (1993) e poi per le «Geometria del sonno» (1997), quasi in una continuità ideale e materiale, ove corpi, gesti, frantumi d’ore si accalcano fra vibranti pagine della memoria, immersi, avrebbe detto Lucio Piccolo, nel ’sortilegio’ della natura, del suo soffio aperto alla sensualità, al corteo degli anni dettato dall’inganno del tempo. S’accende, non peregrino, un gusto antropologico dal sapore antico, dal sordo rumore degli anni trascorsi, nei quali "i vecchi canterani" prendono vita dalle "stanze profumate di cotogna".
Ed è questo profumo che tutto pervade: camere in ombra, giorni della doglianza, fanciullezza svanita e riproposta in una vivida surrealtà, quasi a specchiarsi in "cavalli di zucchero", occhi di ramarro, fluttuare bizzarro di lepidotteri. Infine: alberi, fruscii d’erbe, il cuore di un ragazzo tra passi silenti d’un capraio, odore aspro di cacciagione, sangue rappreso di una mora.
Aldo Gerbino