Da un Antonello all’altro, dunque. Dal sommo pittore messinese (1430 ca.-1479), quell’«Antonel de Cicilia, huom tanto chiaro», come già nel 1492 lo ricordava Giovanni Santi, padre di Raffaello, mettendolo al primo posto tra tutti i pittori che avevano operato a Venezia, e del quale, alla metà del secolo successivo, messer Giorgio Vasari intuiva quella «dimensione europea» oggi riconosciutagli da tutta la critica internazionale, a quel raffinato e prolifico (in tutti i sensi) scultore palermitano, quell’Antonello Gagini (1478-1536) celebrato in vita soprattutto per la grandiosa Tribuna marmorea dell’abside centrale della Cattedrale palermitana ultimata dai figli dopo la sua morte e irresponsabilmente smembrata alla fine del Settecento, ma ora pressoché totalmente ignorato dalla storiografia artistica. Tra queste due vette del ritardato Rinascimento isolano si dispiega il racconto che Benedetto Patera fa con estremo rigore filologico, in un linguaggio semplice e scorrevole, di tutta una complessa stagione dell’arte isolana, in cui dopo la fortunata bottega di Domenico Gagini (?-1492) campeggiano la straordinaria, essenziale purezza delle sculture del dalmata Francesco Laurana, (1430 ca.-1502), in cui l’influsso di Antonello da Messina accentuò l’innato senso del rigore formale predisponendolo al successivo accoglimento della lezione di Piero della Francesca, e la personalità, oggi in atto di una giusta rivalutazione, dell’architetto netino Matteo Carnelivari.