A Sud’Europa del 27 luglio 2009
Vizi e debolezze, fascinazione sadica “La mafia del Culo” di Angelo Vecchio
Talvolta, nella letteratura cosiddetta popolare, il rapporto tra lettore e scrittore è un po’ come quello dell’eterna caccia del gatto al topo: più l’equilibrio è delicato, più chi scrive gioca a rimpiattino tra le pagine (nel senso dello stile, della parabola narrativa, dello svelamento dei personaggi e dei loro caratteri) più chi legge “si lecca i baffi” sperando di cogliere l’altro in un passo falso e di portarlo dritto dritto nella trappola del “lo dicevo io” o “lo sospettavo” o ancora “io sapevo che sarebbe finita così”. Come se il lettore volesse darsi ragione del gioco che invece è l’autore a condurre, come volesse prendersi una sorta di rivincita, di autorialità complementare, di compartecipazione al romanzo stesso. È un gioco antico, ha anche una sua fascinazione sadica che pagina dopo pagina intriga e che forse, psicologicamente, andrebbe meglio indagata. Succede questo, con “La mafia del culo”, il nuovo romanzo che Angelo Vecchio, cronista di buona razza e creatore di storie di stoffa buona altrettanto, ha pubblicato per le edizioni Nuova Ipsa. Solo che, più che in altri suoi lavori precedenti, si ha l’impressione che quella che Vecchio regala al lettore sia sì, ancora una volta, l’illusione di aver capito dove sta andando a parare il gioco ma prendendosi lui una rivincita sadica (e assolutamente sconvolgente) con una tecnica di continuo spiazzamento/turbamento.
Che è la stessa sensazione che coglie il capo della Mobile di una città non facile come può esserlo Palermo in un’indagine che forse già dall’inizio si può capire non sia propriamente quel che viene rubricato come ordinaria amministrazione, che lo stupore del poliziotto sia (sta anche qui l’abilità di chi scrive) lo stesso stupore che coglie il lettore davanti a colpi di scena concatenati, e che il senso di continuo sperdimento investigativo (nonostante Pino Todaro e l’agente Buttitta e perfino lo stesso questore Musumeci siano con evidenza tre con un certo pelo sullo stomaco) è il virus che l’autore si diverte a contagiare ai lettori, accomunati così nella stessa sorte dei personaggi.
Si parte da un delitto, naturalmente. Un colpo di pistola che in pieno giorno fa stramazzare al suolo un insigne giurista, un docente di diritto penale. Omicidio che può portare a mille piste, vista la caratura del morto, episodio che non può per l’appunto essere interpretato nella consueta chiave del fattaccio di “nera” con il quale quel poliziotto di quella città è avvezzo. E allora? E allora, pian piano, si fa strada un’ipotesi che è tanto insospettata quanto inquietante: filmini porno, quelle che, in gergo poliziesco si chiamavano (o si chiamano ancora?, chissà) amicizie particolari, che potrebbero cominciare a far a pensare a retroscena torbidi a passioni clandestine, vissute nell’ambiguità, sui binari paralleli di una doppia vita, una delle quali evidentemente clandestina. Insomma, chi era veramente il professor Pino Caronia, fatto fuori in una via trafficatissima del centro storico in un giorno di primavera? E chi sono davvero i personaggi, all’apparenza rispettabilissimi e niente affatto sospettabili che gli ruotavano intorno, chi sta in prima fila e chi invece si nasconde in quell’alta società cittadina che inalbera pennacchi di moralità, di perbenismo, di integrità che non possiede per nulla essendo anzi depositaria di misteri che tali devono restare, che è invece protagonista di piccole perversioni, di nefandezze quotidiane che coinvolgono anche persone con l’anima sporca assai più di quanto possa esserlo una fedina penale?
Come in ogni “giallo” che si rispetti (ma l’etichetta è sbrigativa e tirchia, si potrebbe forse trattare di un thriller sociale, se ci si passa l’azzardo analitico, anche se in Vecchio viene fuori sempre l’anima dello scrittore di romanzi più che il calcolo del “giallista”, è uno che, insomma, si diverte ancora ad indagare più l’anima che i meccanismi) i personaggi son tanti – grandi, meno grandi, poco più che comparse – e affollano un affresco che ha a che fare con la protervia del potere e della malavita ma anche con il marciume da cui si lascia corrodere una collettività, con le ipocrisie e le connivenze di una “facciata” che deve rimanere linda, pulita, presentabile mentre dietro le porte, dentro le stanze si consumano turpitudini. Ecco, “La mafia del culo” è, a suo modo, un romanzo morale, pur senza voler essere bacchettone o moralista (anzi, in alcuni passaggi c’è anche una certa comprensione/indulgenza delle umane debolezze). Perché non si pensi che l’autore voglia scagliare chissà quale anatema dietro l’immoralità che descrive: sono le inclinazioni personali che diventano strumento di ricatto, abuso contro i più deboli o gli inermi, è questa forma di “mafiosità” che Vecchio depreca, condanna. E poi, da non dimenticare, se si vuol descrivere la sensazione di chi legge: alla fine, all’ultima pagina, a rimpiattino vince lo scrittore che non si lascia mai prendere, che è sempre lì, felice di spiazzare. Ma come spesso accade nel rapporto di reciproca provocazione intellettuale che è la scrittura/lettura, il lettore è ben felice d’essersi lasciato scappare l’autore. Pronto magari a riaffacciarsi, quest’ultimo, alla successiva impresa: perché il gioco ricominci.
Salvatore Rizzo