Salvatore Spinelli

Salvatore Spinelli (Palermo, 1892 – Arenzano, 1969), conseguita la laurea in Giurisprudenza, nel 1920 si traferì a Milano dove fu per quarant’anni dirigente amministrativo dell’Ospedale Maggiore, concludendo la carriera con la carica di Segretario Generale. All’Ospedale Maggiore dedicò un’opera storica (La Ca’ Granda, 1956 e 1958) e gli undici volumi biografici dei Benefattori. Fu anche consulente della Casa Ricordi e tradusse il Mussorgsky di M.G. Calvocoressi (1925). Pubblicò due libri di racconti (L’accordo perfetto, 1928; Musica in famiglia, 1969), due raccolte di aforismi (Antiarte e anticritica, 1947; Lo specchio per la bertuccia, 1954) e il romanzo-saga Il mondo giovine (1958-2003

copertina del libro Il mondo giovine di Salvatore Spinelli
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Dal 1881 alla vigilia della prima guerra mondiale, il romanzo narra le vicende di una famiglia, quella dell’ingegner Edmondo Zuelli che sposa Maria Lanzalone e ha due figli: Giannino (1884) e, dopo quasi nove anni, Silvio (1892) che viene seguito dal narratore, appunto, fino alla maggiore età che, nel suo caso, coincide con la vigilia della prima guerra mondiale.

Al racconto del formarsi e del crescere di questa famiglia, nucleo centrale della storia, il narratore intreccia le vicende degli altri numerosi personaggi. In primo luogo dei genitori degli sposi, l’architetto Liborio e la moglie Susanna Zuelli, che vivono a Palermo con i sette figli, e il proprietario terriero don Leoluca Lanzalone con la moglie Maddalena e i loro figli che vivono in un paese, mai nominato, ma che per le allusioni storiche e geografiche il lettore identifica agevolmente con Corleone.

Tra città e campagna, tra continuità e opposizione (non sempre, infatti, i due mondi si scontrano), il romanzo racconta le vicende di numerosi personaggi, dei figli degli uni e degli altri consuoceri in primo luogo, che spesso s’intrecciano ma a volte si accampano senza seguito. Si tratta, in prevalenza (a parte don Liborio, poco rappresentato, e don Leoluca, più visibile sulla scena) di vicende legate a giovani e alla loro crescita, alle loro speranze, ai loro giusti timori, aspettative, ideali, delusioni, dolori e fidanzamenti, rotture, matrimoni, nascite, battesimi e, molte volte, forse troppo spesso, a premature e inquietanti morti. Una sorta di magma familiare, al cui interno si confondono quelli che per il narratore sono gli elementi primordiali di ogni società: la giovinezza del mondo.

Guido Vergani definì Il mondo giovine «l’opera di un "chiarista" nella sottile lucentezza dei paesaggi e nell’approfondita tenerezza con la quale l’autore ha guardato ad un mondo assai meno amaro di quello di Pirandello e meno ironico di quello di Brancati, in una continua vibrazione stilistica che dà alla sua pagina effetti di rara trasparenza.»
Pizzuto ebbe la consapevolezza che il romanzo di Spinelli fosse un capolavoro.

Un romanzo a così alta tenuta narrativa, che non presenta cedimenti e che riesca a coinvolgere, ad avvincere il lettore, per centinaia di pagine, espressione di un ricco universo artistico e umano, non può finire nelle misteriose e bislacche secche della sommersione letteraria.

La presente ristampa, a poco meno di cinquanta anni e nella stesura che ebbe le ultime cure dell’autore, rende giustizia a uno scrittore riservato e di ampia apertura alare, recuperando un capolavoro alla letteratura nazionale ed europea.
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copertina del libro Se il pubblico sapesse... di Antonio Pizzuto IN PROMOZIONE

Originato da una richiesta di aiuto ("Mondadori ti conosce?"), questo carteggio evolve con gli anni in ‘patto di mutuo soccorso’ fra due scrittori alla ricerca di una propria fisionomia (e di editori disposti a riconoscerla). Reclusi in carriere burocratiche che ne hanno depresso le giovanili ambizioni d’arte, Antonio Pizzuto e Salvatore Spinelli misurano nella dimensione libera e ‘irresponsabile’ dello scambio epistolare il pregio dei loro ‘essudati narrativi’ e la legittimità delle ragioni che li sottendono. Il reciproco riscontro, umoristicamente adibito dai "due scimmioni che, chiusi nel gabbione, occhi e culi arrossati, si levano di dosso le pulci vicendevolmente", sedimenta una disputa sul ‘romanzo’ tutta giocata su alternative ancor oggi irrisolte (l’istanza modernista e addirittura informale di Pizzuto, l’aplomb moderato e ‘figurativo’ di Spinelli) e sostenuta da un teatrino di frizzi e lazzi goliardici, di affabili perfidie, di ironiche prosopopee, di causidiche causeries in cui si riaccende la sicilitudine sepolta nel cinereo sussiego dell’‘ottimo funzionario’.

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copertina del libro Ho scritto un libro... - outlet di Antonio Pizzuto IN PROMOZIONE

Bebé, nomignolo familiare di Antonio Pizzuto, segna, nella prima parte di questo tenace epistolario (1929-1949) con Salvatore Spinelli, qui ricostruito con esem­plare cura da A. Pane, il tempo d’una fedele apparte­nenza all’amicizia, dalla quale prende consistenza un quadro intellettuale filtrato dalla città di Palermo (quella cara al Pitré e ad O. Lo Valvo) raccolta tra i due deva­stanti conflitti mondiali. Si mettono anche in luce gli affioramenti, le tensioni preparatorie della loro poetica. Il 1929 è l’anno in cui Pizzuto, allievo non indifferente agli insegnamenti di C. Guastella e sensibile alle lettere (il nonno materno era stato U. A. Amico), definisce l’opera non compresa da G. A. Borgese, Sinfonia. "Oc­corre guardare questa ’Sinfonia’ con occhio nuovo", scriveva, "perché essa non è sorta dal passato, ma sol­tanto dopo il passato [...].Ond’è che io non saprei ri­spondere alle domande «che cosa simboleggia?» se non con un «niente»".

Dal 1948 perviene, invece, il colloquio sui materiali letterari di Salvatore Spinelli (Totò), allievo di E. Donadoni, già pronti a definire l’affresco de Il mondo giovine. Due amici palermitani, laureati in giurisprudenza (Bebé, nel futuro, sarà questore, e Totò amministrativo degli Istituti Ospitalieri di Milano), sostanziati in una (sincretica) duplicità di estetiche: conflagrazione della parola, densità e dilatazione del frammento, introspe­zione e analisi per Pizzuto; discorso lungo e cromatico, erede degli affreschi ottocenteschi, perennemente mos­so dal flusso del tempo e della vita per Spinelli. La fluvialità narrativa di Totò, fortemente contrastante con la pagina pizzutiana, ci restituisce un autore, così come sottolinea Lucio Zinna nel denso saggio introduttivo, che "nel leggere i manoscritti di Pizzuto, si sente diso­rientato, trova (1948) ’cose grandi’ e ’cose meno gran­di’".
I loro rapporti epistolari dureranno ancora per altri due decenni, ma, come essi stessi ebbero a dichiarare: "Noi siamo due scrittori di opposte tendenze, ma ci vo­gliamo bene immensamente". Ma si sarebbe potuto af­fermare che la faccia (tonda e malinconicamente feli­ce) di Pizzuto ben poteva legarsi alla scrittura di Spinel­li; e, viceversa, il volto scavato, esistenziale di Totò po­teva nervosamente scorrere tra i fili intricati delle ’Bam­bole’, abitare le stanze d’uno scrittore che vestiva l’abito di poliziotto: "un modo come un altro", dirà egli stesso, "per guadagnarsi da vivere". 


Salvatore Spinelli (Palermo, 1892 - Arenzano, 1969), conseguita la laurea in Giurisprudenza, nel 1920 si trasferì a Milano dove fu per quarant’anni dirigente amministrativo dell’Ospedale Maggiore, concludendo la carriera con la carica di Segretario Generale. Al­l’Ospedale Maggiore dedicò un’opera storica (La Ca’ Granda, 1956 e 1958) e gli undici volumi biografici dei Benefattori. Fu anche consulente della Casa Ri­cordi e tradusse il Mussorgsky di M. G. Calvocoressi (1925). Pubblicò due libri di racconti  (L’accordo per­fetto, 1928; Musica in famiglia, 1969), due raccolte di aforismi (Antiarte e anticritica, 1947; Lo specchio per la bertuccia, 1954) e il romanzo-saga II mondo giovi­ne (1958).

Antonio Pizzuto (Palermo, 1893 - Roma 1976), cre­sciuto in una famiglia di tradizioni umanistiche, si laureò in Giurisprudenza e quindi in Filosofia. Nel 1918 intraprese a Palermo la carriera di poliziotto, proseguita (dal 1930) a Roma, con importanti incari­chi negli organismi della Polizia Internazionale (l’at­tuale Interpol), e conclusa nel 1949 ad Arezzo, con il grado di Questore. Dopo la pensione si consacrò alla scrittura, imponendosi come uno dei narratori più originali del Novecento. Fra le sue opere ricordiamo: Sul ponte di Avignone (1938 e 1985) Signorina Rosina (1956, 1959 e 1967); Si riparano bambole (I960 e 1973); II triciclo (1962 e 1966); Ravenna (1962); Paginette (1964 e 1972); Sinfonia (1966 e 1974); Testa­mento (1969); Pagelle I e II (1973 e 1975. Postume sono uscite: Ultime e Penultime (1978); Giunte e Vir­gole (1996); Cosi (1998) Rapiti e Rapier (1998); Spe­gnere le caldaie (1999). Recentemente sono apparsi gli epistolari con Giovanni Nencioni (1998), e con Gianfranco e Margaret Contini (2000).

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