La schizofrenia costituisce, senz’alcuna ombra di dubbio, il più importante problema di tutta la moderna psichiatria. E ciò non solo perché questa malattia possiede un grandissimo significato sociale; ma anche perché il suo enigma biologico la allontana, per tanti punti di vista, da tutte le regole note della medicina.
La letteratura che si occupa di questo problema è immensa ed aumenta ogni giorno di più; ma sovente i vari contributi invece di apportare un raggio di luce, sia pure molto fievole, che possa in qualche modo contribuire alla sua soluzione, non fanno altro che infittire ancora di più il buio che lo circonda con la conseguenza di rendere ancora più ardua la soluzione dei vari problemi clinici che la malattia comporta.
Le principali oscurità di questo appassionante problema possono senz’altro essere considerate le seguenti:
1) grave e spesso permanente degradazione della funzione psichica alla quale non fa riscontro alcun substrato lesionale certo;
2) aspetto fenomenologico di un’alterazione importante che, nello stesso tempo, è incomprensibile nella sua struttura psicopatologica e difficilmente intuibile nella sua patogenesi;
3) decorso quanto mai diverso e spesso imprevedibile di un raggruppamento sintomatologico molto vasto e variabile.
Se si pone attenzione al gran numero di concezioni che sono state finora postulate ed alle tante diverse posizioni assunte dai diversi ricercatori, di fronte al problema della schizofrenia e delle psicosi schizofreniche, ci si rende conto di quanto complessa sia la problematica con la quale ci confrontiamo.
Si tratta di un’unità nosolofica? Oppure le sindromi schizofreniche sono forme distinte ed indipendenti l’una dall’altra? Sono reazioni biologiche oppure reazioni puramente psichiche della personalità? Sono autentiche somatosi? Esistono sintomi veramente patognomonici che ci consentono, in clinica, di isolare con certezza le psicosi schizofreniche? Si tratta di una malattia ereditaria? La sua causalità è endogena oppure esogena? Perché tanto polimorfismo clinico? È la schizofrenia primitivamente cerebrale o extracerebrale? Queste e tante altre domande si presentano alla mente di chi si accinge allo studio della schizofrenia ed incomincia a meditare sulle diverse ipotesi prospettate.
La tesi che verrà prospettata e sostenuta in questo lavoro è che le schizofrenie sono dovute ad una catena causale i cui principali anelli sono rappresentati da:
1) struttura costituzionale;
2) risposte progressivamente difettose ed abitudini nocive di pensiero e sentimento;
3) eventi ed esperienze psicologiche stressanti;
4) processi organici di natura, il più delle volte, dismetaboliche.
Queste condizioni, infatti, sono tutte forze che, in maniera subdola, tendono a disorganizzare e frantumare la personalità nel modo più vario. Fra tutti questi anelli causali, però, quelli che, a mio avviso, esplicano il ruolo più importante sono quelli che riguardano la struttura costituzionale che pertanto, in ultima istanza, sono quelli che affondano le loro radici nella biologia genetica del soggetto.
È evidente, però, che questo mio punto di vista non potrà, sic et simpliciter, essere accettato e condiviso da tutti gli studiosi dell’argomento; esso, tuttavia, servirà a stimolare la riflessione e la discussione che mi auguro pacata e costruttiva.
Sulla base di questo mio punto di vista, comunque, è senz’altro possibile, a mio avviso, conciliare fra loro le due maggiori tesi che attualmente si contendono il campo dell’interpretazione genetica della malattia, vale a dire quella organicistica e quella psicogenetica, poiché esse, ad una più attenta e pacata valutazione ed analisi dettagliata dimostrano che, lungi dall’escludersi l’un l’altra, si integrano e completano vicendevolmente.
È da tener presente, comunque, che il punto di vista da me espresso ha sempre il valore di una ipotesi che è né più né meno fondata di tutte le altre finora prospettatte; ma se dinnanzi ai tanti problemi ancora insoluti della Psichiatria non si assumono posizioni per l’una o l’altra ipotesi o teoria non si perverrà mai all’apertura di una breccia nelle difese di questa problematica.
Di fronte a ciò che è sconosciuto, tutti i suggerimenti, tutte le opinioni ed i punti di vista sono, a mio avviso, lodevoli anche se essi non rappresentano niente di più che l’ansia e l’inquietudine di gettar luce là dove è buio fitto.
Quando, di fronte ad un problema come quello della schizofrenia, si mantiene un atteggiamento statico di raccolta di dati, di teorie e di ipotesi, senza poi cercare di valorizzarli, di ottenere da essi un preciso atteggiamento di fronte al problema, fosse anche solamente di tipo speculativo e di carattere puramente personale, in un campo come questo in cui non esiste quasi niente di definitivamente ammesso come autentica verità, quella posizione di immobilismo risulta, oltre che inerte, del tutto sterile. Viceversa, a suo confronto, l’altra, anche se non conduce alla certezza e serve soltanto come giudizio transitorio, fino a quando l’autentica verità non giunge fino a noi, risulta sempre più produttiva.
E questo il motivo per cui il mio atteggiamento, di fronte alla problematica attuale dell’etiopatogenesi della schizofrenia, oltre che critico è speculativo. Sicché non è del tutto escluso che i risultati di indagini future potrebbero anche indurmi a dover cambiare, in tutto od in parte, le mie opinioni.
Ad ogni modo lo scopo principale di questo mio lavoro, frutto di una esperienza clinica quarantennale, è quello di fornire una visione del problema che sia la più chiara possibile ed una guida alla soluzione pratica dei vari quesiti clinici che la malattia quotidianamente comporta. […]
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