Qualcosa di ancestrale, di amniotico, di magmatico e lucido insieme, insiste, con perentoria fierezza, in questi versi di Giovanni Occhipinti, elaborati alla fine degli anni Ottanta e raccolti sotto il titolo L’acqua e il sogno. Non a caso l’innervazione che si offre, quasi dolente, sul versante delle stazioni poetiche, dislocata nella interfaccia dei singoli versi, in bilico su di uno sprofondamento d’abisso, o protèsa (quasi) in una sorta di desiderio navigatorio nel cyberspazio disposto tra remotissime virtuali galassie, o volta alla ricerca di un platonico iperuranio, o ancora diretta per biologica appartenenza alle raggelate certezze del mito, appare qui risolta in forma di un reticolo ombroso costellato di incertezze, dubbi, di addensati frammenti della memoria. Occhipinti investe tutto nel suo ipermetro cauto e coinvolgente; quale corporeità gorgonica egli dispone il nutrimento al turbine dell’anima; e in questo turbine tutto vi trova alloggiamento, la funzione primigenia: dalle elitre degli insetti, alle pigmentazioni metafisiche imposte dal diorama della pittura, ai suoni, coinvolgendo, in una sorta di espressionismo verbale, la condizione più intima dei rapporti umani. Così: amore, sesso, dialogo estraniante, volti familiari, affetti, sentimenti, trovano la loro giustificazione nell’autunno dell’esistenza (tempo privilegiato dei resoconti), in quella piega debole arricchita dagli occhi di figli, nipoti, e nei quali il poeta riflette il suo scoramento, soprattutto per ritrovarne la sublime ragione del suo esserci lungo "l’asse che conduce a dio". Dalla graduale perdita delle capacità d’opposizione al frastuono della quotidianità, affiora, quale flebile suono umano, quell’incerto "mi spaura", che punteggia - e rasserena - il ritmo incalzante del racconto poetico. In tale dispersione emotiva resta comunque a galleggiare, sulle acque laminanti, la fronda esile di un’incomparabile, diafana, pena.