"UNA, SEMPLICE, CONOSCIBILE, SERENA"
La casa della contrada Noce, verso la metà degli anni Ottanta - dove Sciascia mi attendeva, insieme al suo amico d’infanzia e poeta Stefano Vilardo, emanava un corrusco effetto di luce.
Appariva confusa al tremore labile dell’orizzonte cementizio di Agrigento, appena stemperato dal sorriso amaro dello scrittore di Racalmuto.
Un pomeriggio estivo intenso e silenzioso, innervato da una quiete che faceva crescere dentro parte d’anima pronta a entrare in consonanza con quella piega sciasciana fatta d’impegno civile, e sostenuta da un’idea "alta" della politica.
La verità e l’esercizio della protesta, della contraddizione, furono, oltre lo spigoloso tema della poesia, i grani essenziali di quel nostro lontano colloquio.
«Ho contraddetto e mi sono contraddetto», diceva Sciascia (e lo ripete, con l’impeto d’una giovinezza intellettuale, Gina D’Angelo Matassa, in questa sua tacitiana verifica dell’ Utopia nel Candido di Sciascia). In questa frase vi aleggia il fondato timore di come le esercitazioni sulla verità, tendano, poi, a renderla non plastica (se non addirittura anaplastica), a ridurre l’essenza stessa che la governa. Si parlò della morte, dell’angoscia (temi, qui sviluppati in apertura del volumetto), e del lenimento prodotto dallo stato d’innocenza. Argomenti, questi, affrontati, con passione laica, da Gina D’Angelo Matassa, nutriti da una sorta di lucida mestizia, pronti a dipanare vicende della letteratura e della storia, con il condimento della memoria, depurata, per fortuna, dalla "infezione" dell’autobiografismo.
Sulla semplicità e sull’evidenza della verità parlammo in quel meriggio con l’indagatore del Candido: e ancora della diffidenza da lui avvertita nei confronti della poesia («a me piace dire le cose dalla "a" alla "zeta"», rifletteva; mentre sul suo comodino stazionavano i versi di Sereni; e, non a caso, diresse, fino alla morte i poetici "Quaderni di Galleria", e, non a caso, le sue prime esperienze furono di carattere poetico).
Le nostre "divergenze" ci portarono, grazie alla sua franca articolazione di raissoneur, verso l’insita bellezza dell’idea di verità, che proprio in virtù della sua accecante evidenza, veniva "non vista", e, colpevolmente corrosa, andava mostrando, attraverso la sua iperstruttura, la cancrena tutta umana su cui poggiava. «La verità esiste» - ribadisce Gina - «è una, semplice, conoscibile, serena». Proprio in virtù di questa "strutturale" grazia, genera inestinguibili complicazioni, fraintendimenti, angosce. È la persistenza di Candido, nella densità "greve" di questo tempo, a darci, forse, un possibile strumento di pietà (utile l’esercizio della pietà sollecitato da Lèvi-Strauss), ma anche a rilevarci la nostra biologica condizione al martirio intellettuale non appena le sovrastrutture culturali s’impossessano della nostra mente.
"Semplicità? Casualità?", con queste parole, ricordo ci congedammo da Sciascia, dopo aver accennato alle biologiche indicazioni di Monod sul "caso e la necessità" e alle perenni quanto attuali interrogazioni di Sant’Agostino.
Il bagliore che ci aveva accolto, aveva però, a poco a poco, ceduto il posto ad ombre screziate d’un verde cupo, approdo di un inquietante frangersi d’elitre.
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